I Caviè d'Elva

Il mestiere più originale, che godette di grande simpatia e speciale cultura, fu la raccolta, il trattamento e il commercio dei capelli umani, attraverso il quale Elva ruppe il suo isolamento e fece arrivare il suo nome ben oltre la valle Maira e l’Italia.
Secondo alcune fonti questo mestiere s’impiantò nel piccolo paese montano in seguito al trattato di Campoformio, del 1797. Qualche soldato lo aveva certamente ammirato nella zona Veneta e lo aveva portato nel suo paese natio.
I negozianti di capelli acquistavano i capelli dai parrucchieri o direttamente nelle campagne, dove cercavano di convincere le fanciulle a lasciarsi tagliare le lunghe trecce in cambio di un nastro, un fazzoletto o qualche altro ornamento.
La maggior parte degli abitanti di Elva andava in cerca di capelli umani: quest’attività mobilitava giovani e vecchi. Questi invadevano le valli Piemontesi e la pianura recando a spalla un pacco di tessuti, il metro di legno e un grosso ombrello, raccontando storie vere o inventandone con la loro fantasia, cercavano di convincere le donne a lasciarsi tagliare i capelli e a ricevere in cambio un bel fazzoletto da tenere in testa fino alla ricrescita della chioma, oppure alcuni metri di stoffa.

Mazze di capelli raccolti dai Caviè

Un buon numero di elvesi andava in Lombardia, nella Valtellina, nelle valli Camonica e del bergamasco, e anche nel Cremonese. Molti si aggiravano per i cascinali di Cremona, del Parmigiano, di Reggio Emilia. Altri ancora si spingevano nel Veneto, a Vicenza, Padova, Treviso e Belluno, battendo le strade di tutte le valli e toccando tutti i paesi. I Caviè d’Elva erano noti ovunque.
Era assai difficile che un paese o un casolare non fosse stato visitato dai compratori di capelli. Si bussava alla porta di tutti i ricoveri per donne, specialmente si visitavano i monasteri femminili per raccogliere i capelli. Era un’impresa molto ardua persuadere le donne a lasciarsi tagliare i capelli. Nei primi tempi esse avevano paura dei maghi, temevano stregonerie quasi che lasciando nelle mani dei Caviè d’Elva i loro capelli, questi avrebbero potuto comandarle a loro piacimento. L’ostacolo maggiore poteva venire dal parroco, secondo il quale la donna senza chioma non meritava più rispetto.
Si badava alla lunghezza della capigliatura, alla sua qualità e al loro colore: erano preferite quelle nere, bionde oppure quelle bianche delle nonne.
Dopo lungo girovagare, gli elvesi ritornavano verso il loro piccolo paese con i sacchi pieni di capelli, che erano venduti ad altri abitanti che si erano sistemati a Saluzzo, Torino, Cremona.
Costoro, già più avveduti e perfezionati in questo tipo di mestiere, li esportavano a Parigi, Costantinopoli, Londra, New York, fornendo le parrucche ai Lord del parlamento inglese, alle signore dell’aristocrazia, alle cantanti e alle attrici.
Un capitolo a parte occupano i capelli del pettine, che costituivano una specie di scarto rispetto a quelli tagliati direttamente dalla chioma. Questi capelli non potevano essere commerciati senza una preparazione preventiva, richiedevano, infatti, una lunga e meticolosa pulizia, una selezione in base a colore e lunghezza fino alla preparazione delle “mazze”, dove i bulbi dovevano risultare allineati tutti da una stessa parte. Risultando questo un lavoro lucrativo, incoraggiato da grossisti e fabbricanti, fu naturale estenderlo anche ai capelli ordinari. A Elva nacquero quindi diversi laboratori in cui erano impiegati un gran numero di impiegati. Infatti, secondo una stima, negli anni venti-trenta del secolo scorso, circa cinquecento su mille abitanti erano occupati nella lavorazione dei capelli.